Nov 03 2008

UNO SCOGLIO SEPOLTO dai debiti

L’isola dell’Oceano Atlantico, già sede di banche estere che offrivano tassi agevolatissimi, si avvia verso il default a causa della crisi finanziaria. Colpa di un sistema che non si è mai interrogato sulla propria solidità e della sua scarsa importanza strategica
Haukur Már Helgason, REYKJAVIK

Lo scorso aprile il governo ha pubblicato un rapporto sull’«immagine dell’Islanda», scritto da una commissione formata dagli imprenditori che contano nel paese. Il rapporto sintetizza così la storia dell’Islanda: «Per lungo tempo la nazione ha vissuto in ristrettezze, ma da quando ha conquistato la libertà e l’indipendenza, in meno di un secolo, da un paese in via di sviluppo che era si è trasformata in una delle nazioni più ricche del mondo».

In questi mesi l’unico settore d’affari in crescita in Islanda è quello delle guardie del corpo. Un vero boom. Per la prima volta nella storia dell’Islanda, il capo dello stato, i politici e gli «imprenditori» della borsa sono accerchiati da professionisti pieni di muscoli. Dopo una privatizzazione durata da sei ai dieci anni, e una sbalorditiva, costante crescita, le tre maggiori banche islandesi, impossibilitate a pagare i loro debiti, sono crollate nel giro di una settimana. Lo stato, governato dalla banca centrale le ha rinazionalizzate tutte e tre, una dopo l’altra. Il Parlamento ha promulgato una legge d’emergenza che dà allo stato il controllo del settore finanziario, e il governo è alla disperata ricerca di prestiti dall’estero per risarcire il denaro che sembra essersi vanificato nel nulla. Parte di quel denaro veniva dai risparmiatori inglesi e olandesi, che dal 2006 avevano messo i propri soldi sui conti on line di Icesave, ad elevato tasso d’interesse, in un piano che il direttore di banca Sigurjón Arnason, nel corso di un’intervista, aveva definito ingegnoso: «La sola cosa che devo fare è controllare quotidianamente e vedere quanto denaro entra» ha detto sghignazzando, almeno a detta del giornalista; poi ha sollevato la cornetta del telefono e un attimo dopo ha detto: «50 milioni di sterline in entrata, solo venerdì scorso!»

Ma ciò che arriva facilmente, facilmente se ne va. Quando il direttore della banca Centrale Davíð Oddsson e il ministro delle Finanze (peraltro gran conoscitore del settore) Arni Mathiesen dichiararono, dopo la statalizzazione della banca responsabile, che l’Islanda non avrebbe pagato quei debiti – o forse ne avrebbe pagato una parte, questa è la versione di Mathiesen – il Regno unito ha applicato la legge anti terrorismo per congelare i fondi delle banche in Inghilterra. L’Islanda è rimasta scioccata: «Ma… non vedete che siamo bianchi?» Il livello di paradosso cresce così come crolla il valore della nostra corona. Se il valore della corona sembra ora dimezzato rispetto a otto mesi fa, è solo perché la banca centrale lo ha opportunamente fissato. È un dato di fatto che il valore della corona sia vicino allo zero. Gli esperti del mercato usano l’espressione tecnica «tossica» per descrivere la valuta: ed è una realtà, con il 24% di inflazione. Ecco lo stato attuale di un paese neoliberalizzato, quello che fino ad aprile si considerava uno dei più ricchi della terra.
«Questa non è una nazionalizzazione» ha dichiarato, sollecito e con lo sguardo impenetrabile, il primo ministro Geir H. Haarde quando ha statalizzato le prima delle tre banche. Ovviamente, all’apparenza, queste parole erano una bugia eclatante. Ma sotto sotto, c’era una cosa da capire: anche se lo stato ora sta gettando svariati miliardi in questo pozzo senza fondo, riacquistando banche privatizzate di recente, non fatevi ingannare: il governo non ha cambiato politica e non ha intenzione di agire per il benessere della popolazione. Queste misure mirano semplicemente a salvare chi possiede denaro, e probabilmente a mettere il cappio al collo a chi non ce l’ha. Robert Aliber, esimio docente di economia all’Università di Chicago, dichiara a gran voce che la situazione non avrebbe potuto essere affrontata peggio se i ministri fossero stati scelti a caso dall’elenco telefonico.
Gli islandesi devono mediamente 30.000 sterline agli istituti di credito. Il possesso di una casa è nella norma, non è l’eccezione, e la gente prende prestiti per comprarsi un appartamento – ma i giovani prendono prestiti anche per andare all’università, acquistare una macchina, viaggiare. La situazione debitoria si estende dagli investitori stranieri e le banche internazionali, fin dentro le radici che tengono assieme questo bizzarro paese in una complessa ragnatela di debiti.
Visto che la nazione ha la sua valuta locale, la corona, non c’è molta differenza fra questo sistema di debito e i cosiddetti «pagamenti in natura», dove un lavoratore compra beni dalla stessa azienda per cui lavora. Mentre il suo lavoro e la sua fatica vengono annotati nel registro unico del debito e del credito, il lavoratore vede un esiguo, quando non «reale» compenso al proprio lavoro. I giovani che hanno preso grossi prestiti per pagare case sovrapprezzo in un mercato inflazionato, si ritrovano bloccati in quelle case, impossibili da vendere in un mercato immobiliare al collasso, mentre – tenetevi forte! – i prestiti sono indicizzati ai costi di consumo, cosicché in fase di inflazione i debiti crescono in proporzione all’aumento dei prezzi.
Negli ultimi mesi, sono aumentate le ipoteche: la gente deve più denaro alle banche di quanto riesca a pagare. Finora questo intricato sistema ha portato a un gran malessere sociale dove le persone vengono sopraffatte da un mare di preoccupazioni, e dove ognuno arranca, perché forse non ha lavorato abbastanza – oggi, o tutta la settimana, o il mese intero – per pagare le spese mensili; e se lo fanno in ritardo prima o dopo si ritroveranno addosso un carico enorme di interessi passivi da pagare. A tale situazione negativa e ai problemi finanziari aggiungete i tabù – cosa di cui non si parla mai – come un consumo da record mondiale di antidepressivi, e avrete un’idea di come vadano le cose in Islanda, dove il monopolio del denaro copre una realtà nascosta: il paese appartiene ed è gestito da 14 famiglie, quelle famiglie che hanno ereditato un cognome. Se la realtà economica sopra descritta può apparire ingiusta al di là del credibile, pazientate: all’islandese comune la legge non permette di avere un cognome. Solo 14 famiglie di antica aristocrazia ce l’hanno, gli altri portano il nome del padre, alla vecchia maniera pagana: Haukur, figlio di Helgi e Bryndís, la figlia di Björgvin, il figlio di Sigurður. In breve: l’Islanda è una società spietatamente classista. Ma questo sistema creerà divisioni di base quando esaurirà stupidamente le capacità della gente a tirare avanti – o peggio ancora, quando si arriverà al corretto, violento, sistematico equilibrio di massimizzare i profitti ottenuti strizzando ogni essere vivente del paese fino all’ultima goccia.
Presumibilmente, 300 mila persone non bastano a sostenere una valuta fluttuante sui mercati internazionali. 300mila persone, molte delle quali sono troppo occupate a lavorare per interessarsi di politica, sono anche meno di quanto occorra per sostenere un linguaggio adatto a un mondo globalizzato. L’Islanda è assai facilmente manipolata da forze più forti. Una banca non deve neppure attaccarla deliberatamente ma solo colpirla accidentalmente alle spalle, e d’improvviso un’intera nazione è incapace di pensare librandosi oltre la ristrettezza di metafore finanziarie. Per dirla tutta, le competenze dell’islandese medio nel linguaggio finanziario sono inesistenti – gli studenti del liceo più avanzato sono in grado di parlare a ragion veduta di tassi d’interesse e di dibattere sui benefici degli investimenti a breve termine. Ma per ogni altro target il mio linguaggio vale quanto il contante che ho in tasca. E ciò sempre per il medesimo motivo: non c’è tempo per il criticismo né spazio per tirar fuori le cose negative.
«Il pericolo incombente della morte non permette che un linguaggio sia limitato alla gestualità. E, la prima parola che si scambiarono non fu amami ma aiutami». Così disse Rousseau in merito alla nascita del linguaggio nei paesi del Nord Europa. Diciamo pure che in Islanda il gesto non sostituisce la parola, che si è dovuta certo evolvere per spiegare situazioni spinose all’estero. Molte parole, comunque, sono inadeguate. Egemonia. Struttura – il concetto è stato tradotto ma l’equivalente islandese sembra troppo artificioso per essere venuto fuori naturalmente.
E poi c’è la strategia, un altro concetto non tradotto. La repubblica d’Islanda dichiarò la propria indipendenza dalla Danimarca nel 1944, due anni, fino all’occupazione Usa che sarebbe durata 60 anni. L’esercito americano ci ha fatto ricchi, durante la «guerra benedetta» come la chiamano i più anziani – e si trattenne fino a che la montagna nel bel mezzo dell’Atlantico fu strategicamente importante. La cosa andò avanti fino al 2006, quando l’amministrazione Bush si inventò qualcosa di meglio da fare con due aerei a reazione. Il loro centralinista chiamò il nostro ministro per dire «ciao e grazie per il pesce», e poi se ne andarono via. Mentre il dollaro Usa è sostenuto dal rischio di un intervento militare e da una cospicua popolazione, la corona islandese è per lo più sostenuta dal merluzzo. Dopo che l’esercito se ne fu andato ci volle un attimo perché gli economisti locali – e la politica – realizzassero che non avevamo più terra sotto i piedi. In questa sorta di poema epico, che può appena costituire del materiale utile a Marquez o a Don DeLillo, il momento più critico per le autorità islandesi può essere arrivato un attimo prima del crollo delle banche. Alla fine di settembre, la Federal Reserve annunciò che avrebbe sostenuto le banche centrali di Svezia, Norvegia e Danimarca con un accordo sul cambio di valuta – ma non l’Islanda. Per i paesi del Nord che almeno a livello di autorità aristocratiche si identificano in una comunità, il segnale era piuttosto chiaro: affonda, Islanda, affonda! La prima risposta del paese fu di passare al contrattacco e il direttore della Banca centrale Davíð Oddsson dichiarò che la Russia avrebbe concesso all’Islanda il denaro di cui aveva bisogno. La Russia non fu d’accordo.
Sì, l’Islanda affonda, ma nel movimento si adegua alla legge fisica dei cartoni animati, dove un personaggio precipita ma poi si ferma a mezz’aria: e solo quando guarda giù e realizza che sta appeso nel vuoto – o anche, solo quando ammette tale situazione con un gesto esplicito – precipita. Sintomaticamente negli ultimi due anni in Islanda hanno proliferato notizie positive – fino allo scorso febbraio, sulle copertine delle più prestigiose riviste islandesi, abbiamo visto costantemente immagini di soli splendidi e splendidi animali. Tutte e tre le riviste sono a favore del libero mercato e due di esse sono gestite dalla stessa azienda, di proprietà di Björgólfur Gudmundsson, che è stato il più grande azionista europeo della Landsbanki e dell’Icesave, un avido sostenitore del partito al governo, il più brillante tra i banchieri del paese e il più popolare secondo una statistica realizzata lo scorso anno dalla rivista Fréttablaðið: «Chi è il più grande miliardario d’Islanda?» Il giornale ora appartiene a Mr. Gudmundsson. Le buone notizie corrono veloci fino al grande giorno: Lunedì 27 ottobre il centro della prima pagina del giornale conservatore Morgunblaðið riportava la fotografia di una montagna innevata, qualche pecora e un uomo a cavallo. L’ultima pagina ostentava un’immagine di fiori e uccelli. Quattro giorni dopo alcuni abitanti della montagna formalmente conosciuta come Islanda chiedevano aiuto al Fondo Monetario Internazionale, a causa del nevoso ottobre. Chissà quanto avranno dovuto lottare i fotografi per convincere gli uccelli e i fiori. È come una colpa collettiva. Io sono colpevole, di essere associato a questo clan, di aver partecipato al casinò del capitalismo, mentre molte persone credevano di essere dalla parte giusta del grande spartiacque. Di avere una talento naturale per le slot machines e il poker. Quando lo spartiacque ora si muove con il massacrante impatto di un terremoto, molti di quelli che credevano di avere hanno finito per non avere, e molti di quelli che pensavano di restare in gioco hanno finito per essere imbrogliati; non sono triste solo nel vedere noi così imbrogliati, imbavagliati, legati, costretti a faticare. Ciò che anche rattrista è che molta di questa gente, molti di noi, non sono stati poi così disturbati dall’ingiustizia. Non sono stati disturbati dal gioco, ma solo dal fatto di avere perso. Ciò significa che io non ho il senso della giustizia, ma solo del profitto e del non profitto. La crudeltà non mi disturba. È per questo che l’Islanda non solo soffre, ma piange. Noi abbiamo avuto l’occasione di essere un popolo decente e non lo siamo stati. Per niente.
E si procede, con questa associazione, e io non ho neppure il senso della vergogna. Qualcuno ha appena dato inizio all’idiota campagna che apre un sito web, dove islandesi offesi mandano foto scattate nelle loro case, mentre tengono in mano un pezzo di carta con su scritto «Vi sembro un terrorista?» Il motivo è la stesso che causò l’assoluta indignazione e lo sbigottimento del primo ministro Haarde quando l’inglese Gordon Brown ha usato misure antiterrorismo per congelare i fondi delle banche islandesi nel Regno Unito: «Non vedete che sono bianco?»
Al tempo stesso c’è un gran senso di liberazione. Dopo un claustrofobico decennio di generale omologarsi a un modello consumistico dell’uomo e ai benefici del libero mercato, rabbia e risentimento sono ancora fattibili. È ufficiale: il Capitalismo è mostruoso. Provate a pronunciare una frase sui benefici del libero mercato e verrete trattati come uno che parla dei benefici della violenza. Quest’onesto spirito di risentimento ora è possibile e apre la speranza che un giorno la lingua potrà rimpossessarsi di alcune capacità critiche, e che sappia di nuovo descrivere le realtà sociali.
Traduzione di Silvana Pedrini

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